LE ELEZIONI DI MID TERM CAMBIANO IL VOLTO DELL'AMERICA

i democratici conquistano il Congresso

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  1. lupog
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    Il risultato delle elezioni di mid term , che hanno permesso ai Democratici di riconquistare la maggioranza al Congresso- sia alla Camera che al Senato, conferma per una volta le previsioni della vigilia : le urne hanno messo in primo piano le questioni nazionali rispetto a quelle locali ed in particolare contro il modo di condurre la campagna irachena da parte dell’amministrazione Bush . La vittoria democratica in uno stato tradizionalmente repubblicano come la Virginia o ancora più il caso Lincoln Chafee in Rhode Island ne sono una dimostrazione. Lincoln Chafee aveva secondo i sondaggi un gradimento del 60% presso gli elettori del Rhode Island ed era un critico accesso della guerra irachena ma questo non è stato sufficiente a garantirne la rielezione. Per quale motivo? Semplice: perchè era repubblicano e lui avrebbe aumentato i numeri a favore del partito di Bush. Molti elettori si sono comportati come quelli del Rhode Island: hanno voluto cambiare le leve del potere e per questo ,votando democratico, hanno mirato a colpire Bush mostrando
    di non essere più disposti a sopportare i costi anche ( ma non solo)in termini di sangue, della sua politica estera. E ad andare al di là dei meriti o demeriti dei singoli candidati. Gli americani vogliono che la guerra termini nei prossimi mesi, ma ciò non rappresenta la richiesta di un ritiro immediato bensì di un progressivo disimpegno

    L'addio di Rumsfeld


    Che le elezioni per il Congresso fossero un vero e proprio referendum sull’Iraq l’ha compreso anche il presidente Bush che come primo atto si è affrettato a chiedere ed accettare le dimissioni del Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld , uno dei personaggi che maggiormente simboleggiava la volontà dell’amministrazione repubblicana di fare la guerra all’Iraq. L’addio di Rumsfled segna il crepuscolo di un era della politica estera americana , iniziata nelle ore immediatamente successive all’attacco dell’11 settembre. La strategia di Rumsfeld si basava su due linee guida. Innanzitutto la politica estera doveva essere diretta dal Pentagono e non dal Dipartimento di Stato. Immediato corollario era la prevalenza del ricorso alla forza rispetto alla diplomazia . Atteggiamento che nascondeva una scarsa considerazione verso gli stessi alleati che però nel lungo periodo a giocato a sfavore degli Usa perché ne ha segnato il progressivo isolamento sullo scacchiere internazionale. In secondo luogo Rumsfeld esprimeva in campo militare la convinzione della supremazia della tecnologia . Su questa base si è intrapresa l'avventura irachena confidando che la gestione del dopoguerra sarebbe stato relativamente semplice.

    Quale futuro?

    Adesso restano da capire gli scenari futuri. Facciamoci aiutare da un'analista di vaglia come David Gergen, docente ad Harvard e consigliere politico di ben 4 presidenti (Nixon, Ford, Reagan e Clinton). Il successore di Rumsfeld , Robert Gates, ex direttore della Cia, è una figura dell'establishment. Che sappia provvedere alle mutate necessità è tutto da vedere. Sicuramente ci saranno verso l'amministrazione le pressioni per un atteggiamento più aperto e bipartisan , provenienti all'interno dei repubblicani soprattutto da quei senatori che hanno il mandato in scadenza nel 2008 e che non vogliono essere le prossime vittime sacrificali. Un aspetto preoccupante sarà verificare se i gruppi terroristi saranno incoraggiati a credere che, se loro continuano ad attaccare , l'America si indebolirà nella sua lotta. Sarà importante per i Democratici mostrare che loro non stanno ritirandosi nella guerra contro terrore e che se loro si battono per un disimpegno in Iraq ciò non significa la rinuncia ad una robusta politica internazionale al terrore o la netta contrarietà al fatto che nazioni come Iran e Corea del Nord acquistino le armi nucleari e le diffondano. Sarà indispensabile formare una coalizione bipartisan che mandi forti segnali in tal senso.
    Sul piano interno, un Congresso Democratico aprirà la porta ad un'esauriente legislazione sull'immigrazione che era stata ostacolata dai Repubblicani. In campo industriale è probabile che il Congresso lavori per aumentare le tutele ai lavoratori e presti una maggiore attenzione all'ambiente. Se ciò influenzerà il presidente non è da escludere che si provi a recepire alcuni trattati bilaterali sulla materia.
    In vista delle elezioni presidenziali del 2008 in campo democratico la candidatura di Hilary Clinton è minacciata dall'astro nascente iol senatore nero dell'Illinois ,Barack Obama. Tra i repubblicani i risultati rafforzano le prospettive dei centristi come John McCain, sostenitori di una politica meno unilaterale.

    Fonti
    http://www.nytimes.com/ref/elections/2006/...dhE/OLnTCtt9aRA
    http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/6130514.stm
    http://epistemes.org/2006/11/09/laddio-di-...-fine-di-unera/
    http://www.foreignpolicy.com/story/cms.php?story_id=3632
     
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  2. oea
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    gli elettori finiscono prima o poi per accorgersi degli errori di un governo, e per punirli nel voto. ma quale errore hanno punito gli elettori repubblicani?
    il "licenziamento" di rumsfeld farebbe supporre che sia l'errore nell'intera conduzione della guerra iraqena.
    tuttavia, qualcuno (in italia, ho sentito avanzare questa ipotesi da massimo teodori durante un porta a porta, e da fini e casini durante alcuni tg) l'errore punito nel voto di mid term sarebbe soprattutto la scarsa congruenza fra rigore morale predicato a parole e condotta personale di alcuni esponenti repubbicani.
    esistono, al di là di quanto suggeriscono le dimissioni imposte a rumsfeld, analisi del voto che sostengano la prima o la seconda tesi?
     
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  3. lupog
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    In un discorso alla nazione di una ventina di minuti tenutosi mercoledì sera (giovedì notte in Italia) il presidente americano George W. Bush ha spiegato la sua ricetta per uscire dal pantano iracheno:oltre 21 mila soldati in più in Iraq e contrasto alle ingerenze siriane e iraniane. inoltre Bush ha previsto il dislocamento di batterie di missili Patriot in Medio Oriente per garantire la sicurezza in Iraq e rassicurare gli alleati. Bush so è assunto la responsabilità degli errori commessi ma ha anche detto che l'azione americana in Iraq è «fallita» per l' insufficiente numero di militari iracheni e americani ed ha detto che entro il prossimo novembre il governo iracheno assumerà il controllo militare di tutto il territorio. Bush ha affermato anche che un ritiro americano dall'Iraq «provocherebbe il collasso del governo iracheno e stragi di proporzioni inimmaginabili». I democratici promettono battagli al Congresso , bloccando i fondi necessari per il finaziamento della "nuova" strategia di Bush.
    Per i leader democratici al Senato Harry Reid e alla Camera Nancy Pelosi, il presidente ha ignorato l’indicazione degli elettori, che in novembre hanno punito la strategia in Iraq della Casa Bianca e la politica del partito repubblicano. Critiche arrivano da molti ambienti repubblicani sempre più desiderosi di svincolarsi dalle scelte del presidente :«Mandare nuove truppe non è la risposta giusta . Occorre una soluzione politica, non militare».


    fonte: CORRIERE DELLA SERA
     
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  4. onestobender
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    Beh, si vede che Bush ha proprio le idee chiare...

    Aumentare il contingente mi sembra un'ottima exit strategy. :unsure:

    Lo schieramento dei missili Patriot poi è una mossa di una logica stringente, visto che i maggiori problemi iracheni nel campo della sicurezza sono strettamente legati alle minacce missilistiche. :dunno:
    Niente male come presa per i fondelli.

    Intanto l'indipendentissimo nonchè autorevolissimo parlamento iracheno sta per promulgare una legge che concederà ad alcune grandi compagnie petrolifere (la maggior parte delle quali sono casualmente americane) dei contratti trentennali di sfruttamento delle risorse a condizioni molto vantaggiose ( si parla del 75% dei proventi, praticamente una rapina). Tutto questo perchè la guerra è stata fatta per la libertà del popolo iracheno.

    Non bisogna essere dei convinti no-global per dire che gli Stati Uniti stanno portando avanti un'aggressiva politica imperiale in stile napoleonico (o peggio).
    Il problema che non esiste nessuna Gran Bretagna o nessun Wellington che ci salveranno.
     
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  5. lupog
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    CITAZIONE (onestobender @ 11/1/2007, 21:58)
    Intanto l'indipendentissimo nonchè autorevolissimo parlamento iracheno sta per promulgare una legge che concederà ad alcune grandi compagnie petrolifere (la maggior parte delle quali sono casualmente americane) dei contratti trentennali di sfruttamento delle risorse a condizioni molto vantaggiose ( si parla del 75% dei proventi, praticamente una rapina). Tutto questo perchè la guerra è stata fatta per la libertà del popolo iracheno.

    FONTE: THE INDIPENDENT

    Una legge che assegnerà a colossi petroliferi come BP, Shell e Exxon, contratti trentennali per estrarre il greggio iracheno, permettendo per la prima volta, dalla nazionalizzazione del settore nel 1972, il ritorno delle multinazionali petrolifere sul suolo dell'Iraq. :giveup:

    CITAZIONE
    Blood and oil: How the West will profit from Iraq's most precious commodity
    The 'IoS' today reveals a draft for a new law that would give Western oil companies a massive share in the third largest reserves in the world. To the victors, the oil? That is how some experts view this unprecedented arrangement with a major Middle East oil producer that guarantees investors huge profits for the next 30 years
    Published: 07 January 2007

    So was this what the Iraq war was fought for, after all? As the number of US soldiers killed since the invasion rises past the 3,000 mark, and President George Bush gambles on sending in up to 30,000 more troops, The Independent on Sunday has learnt that the Iraqi government is about to push through a law giving Western oil companies the right to exploit the country's massive oil reserves.

    And Iraq's oil reserves, the third largest in the world, with an estimated 115 billion barrels waiting to be extracted, are a prize worth having. As Vice-President Dick Cheney noted in 1999, when he was still running Halliburton, an oil services company, the Middle East is the key to preventing the world running out of oil.

    Now, unnoticed by most amid the furore over civil war in Iraq and the hanging of Saddam Hussein, the new oil law has quietly been going through several drafts, and is now on the point of being presented to the cabinet and then the parliament in Baghdad. Its provisions are a radical departure from the norm for developing countries: under a system known as "production-sharing agreements", or PSAs, oil majors such as BP and Shell in Britain, and Exxon and Chevron in the US, would be able to sign deals of up to 30 years to extract Iraq's oil.

    PSAs allow a country to retain legal ownership of its oil, but gives a share of profits to the international companies that invest in infrastructure and operation of the wells, pipelines and refineries. Their introduction would be a first for a major Middle Eastern oil producer. Saudi Arabia and Iran, the world's number one and two oil exporters, both tightly control their industries through state-owned companies with no appreciable foreign collaboration, as do most members of the Organisation of Petroleum Exporting Countries, Opec.

    Critics fear that given Iraq's weak bargaining position, it could get locked in now to deals on bad terms for decades to come. "Iraq would end up with the worst possible outcome," said Greg Muttitt of Platform, a human rights and environmental group that monitors the oil industry. He said the new legislation was drafted with the assistance of BearingPoint, an American consultancy firm hired by the US government, which had a representative working in the American embassy in Baghdad for several months.

    "Three outside groups have had far more opportunity to scrutinise this legislation than most Iraqis," said Mr Muttitt. "The draft went to the US government and major oil companies in July, and to the International Monetary Fund in September. Last month I met a group of 20 Iraqi MPs in Jordan, and I asked them how many had seen the legislation. Only one had."

    Britain and the US have always hotly denied that the war was fought for oil. On 18 March 2003, with the invasion imminent, Tony Blair proposed the House of Commons motion to back the war. "The oil revenues, which people falsely claim that we want to seize, should be put in a trust fund for the Iraqi people administered through the UN," he said.

    "The United Kingdom should seek a new Security Council Resolution that would affirm... the use of all oil revenues for the benefit of the Iraqi people."

    That suggestion came to nothing. In May 2003, just after President Bush declared major combat operations at an end, under a banner boasting "Mission Accomplished", Britain co-sponsored a resolution in the Security Council which gave the US and UK control over Iraq's oil revenues. Far from "all oil revenues" being used for the Iraqi people, Resolution 1483 continued to make deductions from Iraq's oil earnings to pay compensation for the invasion of Kuwait in 1990.

    That exception aside, however, the often-stated aim of the US and Britain was that Iraq's oil money would be used to pay for reconstruction. In July 2003, for example, Colin Powell, then Secretary of State, insisted: "We have not taken one drop of Iraqi oil for US purposes, or for coalition purposes. Quite the contrary... It cost a great deal of money to prosecute this war. But the oil of the Iraqi people belongs to the Iraqi people; it is their wealth, it will be used for their benefit. So we did not do it for oil."

    Paul Wolfowitz, Deputy Defense Secretary at the time of the war and now head of the World Bank, told Congress: "We're dealing with a country that can really finance its own reconstruction, and relatively soon."

    But this optimism has proved unjustified. Since the invasion, Iraqi oil production has dropped off dramatically. The country is now producing about two million barrels per day. That is down from a pre-war peak of 3.5 million barrels. Not only is Iraq's whole oil infrastructure creaking under the effects of years of sanctions, insurgents have constantly attacked pipelines, so that the only steady flow of exports is through the Shia-dominated south of the country.

    Worsening sectarian violence and gangsterism have driven most of the educated élite out of the country for safety, depriving the oil industry of the Iraqi experts and administrators it desperately needs.

    And even the present stunted operation is rife with corruption and smuggling. The Oil Ministry's inspector-general recently reported that a tanker driver who paid $500 in bribes to police patrols to take oil over the western or northern border would still make a profit on the shipment of $8,400.

    "In the present state, it would be crazy to pump in more money, just to be stolen," said Greg Muttitt. "It's another reason not to bring in $20bn of foreign money now."

    Before the war, Mr Bush endorsed claims that Iraq's oil would pay for reconstruction. But the shortage of revenues afterwards has silenced him on this point. More recently he has argued that oil should be used as a means to unify the country, "so the people have faith in central government", as he put it last summer.

    But in a country more dependent than almost any other on oil - it accounts for 70 per cent of the economy - control of the assets has proved a recipe for endless wrangling. Most of the oil reserves are in areas controlled by the Kurds and Shias, heightening the fears of the Sunnis that their loss of power with the fall of Saddam is about to be compounded by economic deprivation.

    The Kurds in particular have been eager to press ahead, and even signed some small PSA deals on their own last year, setting off a struggle with Baghdad. These issues now appear to have been resolved, however: a revenue-sharing agreement based on population was reached some months ago, and sources have told the IoS that regional oil companies will be set up to handle the PSA deals envisaged by the new law.

    The Independent on Sunday has obtained a copy of an early draft which was circulated to oil companies in July. It is understood there have been no significant changes made in the final draft. The terms outlined to govern future PSAs are generous: according to the draft, they could be fixed for at least 30 years. The revelation will raise Iraqi fears that oil companies will be able to exploit its weak state by securing favourable terms that cannot be changed in future.

    Iraq's sovereign right to manage its own natural resources could also be threatened by the provision in the draft that any disputes with a foreign company must ultimately be settled by international, rather than Iraqi, arbitration.

    In the July draft obtained by The Independent on Sunday, legislators recognise the controversy over this, annotating the relevant paragraph with the note, "Some countries do not accept arbitration between a commercial enterprise and themselves on the basis of sovereignty of the state."

    It is not clear whether this clause has been retained in the final draft.

    Under the chapter entitled "Fiscal Regime", the draft spells out that foreign companies have no restrictions on taking their profits out of the country, and are not subject to any tax when doing this.

    "A Foreign Person may repatriate its exports proceeds [in accordance with the foreign exchange regulations in force at the time]." Shares in oil projects can also be sold to other foreign companies: "It may freely transfer shares pertaining to any non-Iraqi partners." The final draft outlines general terms for production sharing agreements, including a standard 12.5 per cent royalty tax for companies.

    It is also understood that once companies have recouped their costs from developing the oil field, they are allowed to keep 20 per cent of the profits, with the rest going to the government. According to analysts and oil company executives, this is because Iraq is so dangerous, but Dr Muhammad-Ali Zainy, a senior economist at the Centre for Global Energy Studies, said: "Twenty per cent of the profits in a production sharing agreement, once all the costs have been recouped, is a large amount." In more stable countries, 10 per cent would be the norm.

    While the costs are being recovered, companies will be able to recoup 60 to 70 per cent of revenue; 40 per cent is more usual. David Horgan, managing director of Petrel Resources, an Aim-listed oil company focused on Iraq, said: "They are reasonable rates of return, and take account of the bad security situation in Iraq. The government needs people, technology and capital to develop its oil reserves. It has got to come up with terms which are good enough to attract companies. The major companies tend to be conservative."

    Dr Zainy, an Iraqi who has recently visited the country, said: "It's very dangerous ... although the security situation is far better in the north." Even taking that into account, however, he believed that "for a company to take 20 per cent of the profits in a production sharing agreement once all the costs have been recouped is large".

    He pointed to the example of Total, which agreed terms with Saddam Hussein before the second Iraq war to develop a huge field. Although the contract was never signed, the French company would only have kept 10 per cent of the profits once the company had recovered its costs.

    And while the company was recovering its costs, it is understood it agreed to take only 40 per cent of the profits, the Iraqi government receiving the rest.

    Production sharing agreements of more than 30 years are unusual, and more commonly used for challenging regions like the Amazon where it can take up to a decade to start production. Iraq, in contrast, is one of the cheapest and easiest places in the world to drill for and produce oil. Many fields have already been discovered, and are waiting to be developed.

    Analysts estimate that despite the size of Iraq's reserves - the third largest in the world - only 2,300 wells have been drilled in total, fewer than in the North Sea.

    Confirmation of the generous terms - widely feared by international non government organisations and Iraqis alike - have prompted some to draw parallels with the production-sharing agreements Russia signed in the 1990s, when it was bankrupt and in chaos.

    At the time Shell was able to sign very favourable terms to develop oil and gas reserves off the coast of Sakhalin island in the far east of Russia. But at the end of last year, after months of thinly veiled threats from the environment regulator, the Anglo-Dutch company was forced to give Russian state-owned gas giant Gazprom a share in the project.

    Although most other oil experts endorsed the view that PSAs would be needed to kick-start exports from Iraq, Mr Muttitt disagreed. "The most commonly mentioned target has been for Iraq to increase production to 6 million barrels a day by 2015 or so," he said. "Iraq has estimated that it would need $20bn to $25bn of investment over the next five or six years, roughly $4bn to $5bn a year. But even last year, according to reports, the Oil Ministry had between $3bn and $4bn it couldn't invest. The shortfall is around $1bn a year, and that could easily be made up if the security situation improved.

    "PSAs have a cost in sovereignty and future revenues. It is not true at all that this is the only way to do it." Technical services agreements, of the type common in countries which have a state-run oil corporation, would be all that was necessary.

    James Paul of Global Policy Forum, another advocacy group, said: "The US and the UK have been pressing hard on this. It's pretty clear that this is one of their main goals in Iraq." The Iraqi authorities, he said, were "a government under occupation, and it is highly influenced by that. The US has a lot of leverage... Iraq is in no condition right now to go ahead and do this."

    Mr Paul added: "It is relatively easy to get the oil in Iraq. It is nowhere near as complicated as the North Sea. There are super giant fields that are completely mapped, [and] there is absolutely no exploration cost and no risk. So the argument that these agreements are needed to hedge risk is specious."

    One point on which all agree, however, is that only small, maverick oil companies are likely to risk any activity in Iraq in the foreseeable future. "Production over the next year in Iraq is probably going to fall rather than go up," said Kevin Norrish, an oil analyst from Barclays. "The whole thing is held together by a shoestring; it's desperate."

    An oil industry executive agreed, saying: "All the majors will be in Iraq, but they won't start work for years. Even Lukoil [of Russia], the Chinese and Total [of France] are not in a rush to endanger themselves. It's now very hard for US and allied companies because of the disastrous war."

    Mr Muttitt echoed warnings that unfavourable deals done now could unravel a few years down the line, just when Iraq might become peaceful enough for development of its oil resources to become attractive. The seeds could be sown for a future struggle over natural resources which has led to decades of suspicion of Western motives in countries such as Iran.

    Iraqi trade union leaders who met recently in Jordan suggested that the legislation would cause uproar once its terms became known among ordinary Iraqis.

    "The Iraqi people refuse to allow the future of their oil to be decided behind closed doors," their statement said. "The occupier seeks and wishes to secure... energy resources at a time when the Iraqi people are seeking to determine their own future, while still under conditions of occupation."

    The resentment implied in their words is ominous, and not only for oil company executives in London or Houston. The perception that Iraq's wealth is being carved up among foreigners can only add further fuel to the flames of the insurgency, defeating the purpose of sending more American troops to a country already described in a US intelligence report as a cause célèbre for terrorism.

    America protects its fuel supplies - and contracts

    Despite US and British denials that oil was a war aim, American troops were detailed to secure oil facilities as they fought their way to Baghdad in 2003. And while former defence secretary Donald Rumsfeld shrugged off the orgy of looting after the fall of Saddam's statue in Baghdad, the Oil Ministry - alone of all the seats of power in the Iraqi capital - was under American guard.

    Halliburton, the firm that Dick Cheney used to run, was among US-based multinationals that won most of the reconstruction deals - one of its workers is pictured, tackling an oil fire. British firms won some contracts, mainly in security. But constant violence has crippled rebuilding operations. Bechtel, another US giant, has pulled out, saying it could not make a profit on work in Iraq.

    In just 40 pages, Iraq is locked into sharing its oil with foreign investors for the next 30 years

    A 40-page document leaked to the 'IoS' sets out the legal framework for the Iraqi government to sign production- sharing agreement contracts with foreign companies to develop its vast oil reserves.

    The paper lays the groundwork for profit-sharing partnerships between the Iraqi government and international oil companies. It also lays out the basis for co-operation between Iraq's federal government and its regional authorities to develop oil fields.

    The document adds that oil companies will enjoy contracts to extract Iraqi oil for up to 30 years, and stresses that Iraq needs foreign investment for the "quick and substantial funding of reconstruction and modernisation projects".

    It concludes that the proposed hydrocarbon law is of "great importance to the whole nation as well as to all investors in the sector" and that the proceeds from foreign investment in Iraq's oilfields would, in the long term, decrease dependence on oil and gas revenues.

    The role of oil in Iraq's fortunes

    Iraq has 115 billion barrels of known oil reserves - 10 per cent of the world total. There are 71 discovered oilfields, of which only 24 have been developed. Oil accounts for 70 per cent of Iraq's GDP and 95 per cent of government revenue. Iraq's oil would be recovered under a production sharing agreement (PSA) with the private sector. These are used in only 12 per cent of world oil reserves and apply in none of the other major Middle Eastern oil-producing countries. In some countries such as Russia, where they were signed at a time of political upheaval, politicians are now regretting them.

    The $50bn bonanza for US companies piecing a broken Iraq together

    The task of rebuilding a shattered Iraq has gone mainly to US companies.

    As well as contractors to restore the infrastructure, such as its water, electricity and gas networks, a huge number of companies have found lucrative work supporting the ongoing coalition military presence in the country. Other companies have won contracts to restore Iraq's media; its schools and hospitals; its financial services industry; and, of course, its oil industry.

    In May 2003, the Coalition Provisional Authority (CPA), part of the US Department of Defence, created the Project Management Office in Baghdad to oversee Iraq's reconstruction.

    In June 2004 the CPA was dissolved and the Iraqi interim government took power. But the US maintained its grip on allocating contracts to private companies. The management of reconstruction projects was transferred to the Iraq Reconstruction and Management Office, a division of the US Department of State, and the Project and Contracting Office, in the Department of Defence.

    The largest beneficiary of reconstruction work in Iraq has been KBR (Kellogg, Brown & Root), a division of US giant Halliburton, which to date has secured contracts in Iraq worth $13bn (£7bn), including an uncontested $7bn contract to rebuild Iraq's oil infrastructure. Other companies benefiting from Iraq contracts include Bechtel, the giant US conglomerate, BearingPoint, the consultant group that advised on the drawing up of Iraq's new oil legislation, and General Electric. According to the US-based Centre for Public Integrity, 150-plus US companies have won contracts in Iraq worth over $50bn.

    30,000 Number of Kellogg, Brown and Root employees in Iraq.

    36 The number of interrogators employed by Caci, a US company, that have worked in the Abu Ghraib prison since August 2003.

    $12.1bn UN's estimate of the cost of rebuilding Iraq's electricity network.

    $2 trillion Estimated cost of the Iraq war to the US, according to the Nobel prize-winning economist Joseph Stiglitz.

    WHAT THEY SAID

    "Oil revenues, which people falsely claim that we want to seize, should be put in a trust fund for the Iraqi people"

    Tony Blair; Moving motion for war with Iraq, 18 March 2003

    "Oil belongs to the Iraqi people; the government has... to be good stewards of that valuable asset "

    George Bush; Press conference, 14 June 2006

    "The oil of the Iraqi people... is their wealth. We did not [invade Iraq] for oil "

    Colin Powell; Press briefing, 10 July 2003

    "Oil revenues of Iraq could bring between $50bn and $100bn in two or three years... [Iraq] can finance its reconstruction"

    Paul Wolfowitz; Deputy Defense Secretary, March 2003

    "By 2010 we will need [a further] 50 million barrels a day. The Middle East, with two-thirds of the oil and the lowest cost, is still where the prize lies"

    Dick Cheney; US Vice-President, 1999

     
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  6. lupog
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    Nel suo discorso sullo stato dell'Unione dinanzi al Congresso Usa il presidente George W. Bush ha sottolineato che “l'America non può fallire in Iraq. Le conseguenze di un fallimento sarebbero terribili e molto profonde” Bush ha spiegato la decisione di aumentare la truppe “perchè questa iniziativa racchiude le migliori possibilità di successo”
    il presidente Bush ha proposto la costituzione di uno speciale consiglio consultivo sulla guerra al terrorismo composto di leader di entrambi i partiti. "Così mostreremo al nemico che siamo uniti nell'obiettivo della vittoria” il pericolo non è solo Al Qaeda : “Siamo di fronte a una minaccia crescente degli estremisti sciiti che sono altrettanto ostili all'America e determinati a dominare il Medio Oriente". “molti di loro prendono ordini dal regime in Iran che finanzia e arma terroristi come Hezbollah, un gruppo secondo solo ad Al Qaeda quanto a vite americane che ha preso”
    Bush ha proposto una nuova versione di sé parzialmete ecologista proponendo la riduzione del 20% del consumo di benzina nei prossimi anni. “Siamo stati troppo a lungo dipendenti dal petrolio estero. Dobbiamo ampliare le nostre opportunità per ottenere uno stabile flusso di energia che tenga l'economia americana in moto e tenga allo stesso tempo l'ambiente dell'America pulito".

    Del tutto negativa la risposta dei democratici affidata al senatore Jim Webb (che ha il figlio militare in Iraq),: "Bisogna cambiare immediatamente rotta, bisogna togliere i nostri soldati dalle strade irachene, la maggioranza della nazione e delle forze armate non appoggia più questa guerra che sta costando un prezzo altissimo in termini di vite umane e finanziariamente".

    fonte: AFFARI ITALIANI

    Troppo poco e troppo tardi Bush: la versione ecologista di un presidente che non ha neanche ratificato il protocollo di Kyoto sà molto di presa per i fondelli. :wallbash:
     
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  7. lupog
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    Stati Uniti, il senato boccia il ritiro dall'Iraq.



    Il senato statunitense ha respinto, con 50 voti contrari e
    48 a favore, una risoluzione dei democratici che chiedeva
    il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq entro la fine
    del 2008.
    Due senatori democratici hanno votato contro il
    piano, che per passare avrebbe dovuto ottenere 60 voti. La
    commissione di bilancio della camera dei rappresentanti ha
    invece votato a favore del ritiro.

    fonte: new york times
     
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  8. lupog
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    Usa: anche il Senato vota il ritiro dall'Iraq. Ma Bush preannuncia: metterò il veto alle legge
    Come la Camera, i senatori chiedono alle truppe di andar via da Bagdad, ma in una data diversa: dovranno mettersi d'accordo


    WASHINGTON (USA) - Un voto che non cambia nulla sul piano operativo per quanto riguarda la situazione in Iraq, ma che acuisce lo scontro tra il Congresso (a maggioranza democratica) e il presidente degli Stati Uniti (che è repubblicano).
    IL VOTO - A dispetto infatti del veto minacciato dal presidente George W. Bush, il Senato americano ha infatti approvato la richiesta di fondi straordinari destinati per la maggior parte alle missioni in Iraq e in Afghanistan, ma con il vincolo di ritirare i soldati statunitensi dal territorio iracheno entro il 2008. L'aula si è espressa con 51 voti a favore e 47 contro il disegno di legge che Bush ha minacciato di bloccare con il veto se fosse passato con questo vincolo. Il testo chiede che il ritiro delle truppe inizi entro quattro mesi e si completi entro il 31 marzo del 2008. L'iniziativa è legata a uno stanziamento di 121,7 miliardi di dollari. La Camera dei Rappresentanti l'aveva votata la settimana scorsa ponendo come data per il ritiro dall'Iraq il primo settembre del 2008. I due rami del Congresso dovranno trovare una compromesso, prima che il testo sia mandato alla firma del presidente il mese prossimo. Firma che probabilmente non ci sarà.
    L'OPPOSIZIONE DEL PRESIDENTE - A questo punto però non è chiaro cosa succederà. Quella del Senato non è infatti la stessa lettura della legge approvata la settimana scorsa dall’altro ramo del Congresso. Con una maggioranza più robusta i democratici della Camera hanno varato un testo che, se tradotto in legge, obbligherebbe Bush a definire un calendario certo per il ritiro nel settembre del 2008. La formula scelta dalla Camera alta è più timida e si limita a «suggerire» al presidente di impegnarsi per la fine delle ostilità entro l’anno prossimo, senza imporre alcun vincolo concreto. Per due volte i democratici avevano già provato in passato a approvare una misura simile a quella di oggi, scontrandosi tuttavia con il muro dell’ostruzionismo parlamentare repubblicano, che questa volta non è scattato. Dietro, un calcolo politico preciso: i repubblicani preferiscono che sia il presidente in persona, esercitando il suo diritto di veto, a bocciare la legge. Per vanificare il veto, i democratici avrebbero bisogno dei consensi dei due terzi di Camera e Senato, numeri di cui per ora non dispongono.


    FONTE: CORRIERE
     
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  9. lupog
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    NUOVO VOTO DI RITIRO DELLE TRUPPE DA PARTE DELLA CAMERA USA : con 223 voti a 201 la Camera ha approvato una legge per l'inizio del ritiro delle truppe dall'Iraq entro 120 giorni e il completamento entro il primo aprile 2008. Ma al Senato i democratici non dispongono della maggioranza dei 2/3 necessarria per evitare il veto del presidente Bush.

    dal mio punto di vista lo schema è chiaro: i democratici anche in vista delle presidenziali del 2008 continuano a votare mozioni di ritiro per prendere le distanze agli occhi dell'opinione pubblica dall'operato del presidente , ben sapendo che poi questi opporrà il veto.
    siamo di fronte a delle mosse di politica elettorale: credo infatti che anche i democratici siano coscienti che ritirarsi dall'Iraq ora avrebbe conseguenze disastrose sulla siscurezza del'area medioorientale e non solo di quest'ultima.
     
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  10. guicar0
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    Concordo lupog, vogliono solo assicurarsi la vittoria delle prossime presidenziali
     
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  11. Drago Nero™
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    Nonostante sia un sostenitore del partito Repubblicano ( con tanto di iscrizione come "sostenitore" esterno e, ovviamente, senza diritto di voto ), non provo imbarazzo alcuno nel muovere alcune critiche all'amministrazione Bush, così come ho elogiato altre sue iniziative. Poiché si parla della gestione della crisi mediorientale mi limiterò a questo e a null'altro.

    Debbo dire che, sin dal termine del conflitto vero e proprio, mi ha sorpreso l'approssimazione con la quale il Pentagono ( che ultimamente non ci prende mai ) ha studiato l'evoluzione post bellica, praticamente non considerando il rischio terrorismo e limitandosi ad "aggiornare" le cartine in suo possesso o chiedendo l'invio di nuove truppe. Ho sempre sostenuto che non é il numero di soldati sul campo ( comunque importante ) a fare la differenza, ma il binomio tattica - strategia. Non occorre aver fatto la scuola di guerra di West Point per saperlo.

    Alla miopia dei militare si somma la cocciutaggine di un Presidente che sembra sordo alle richieste del Congresso ( espressione del popolo ), ponendo il veto su ogni iniziativa atta a progettare un ritorno graduale delle truppe, lasciando l'Iraq nonostante la fragile democrazia ed il concreto rischio di guerra intestina. Nemmeno l'intraprendenza e la lungimiranza della Rice ( che ha un peso specifico notevole sulle decisioni presidenziali grazie al suo ruolo di Segretario di Stato ) riescono a far recedere Bush dalla sua fallace intraprendenza.

    Onestamente non m'importa se i Repubblicani vinceranno o perderanno le prossime elezioni, m'interessa molto di più la sorte dei tanti giovani che si battono, spesso in condizioni difficoltose, per costruire la democrazia dove, purtroppo, non la si potrà mai avere compiutamente. In fin dei conti, per il modesto parere di chi vi scrive, l'Iraq stesso non é tanto dissimile dall'Iran "atomico", dalla Siria "ombrosa" e dallo stesso Israele che non rappresenta un'anima candida.

    Ritiro, insomma, programmato sin quanto si vuole, ma pur sempre deciso ed attuato in tempi brevi ( condivisibile la data previsionale del 2008 ). Spero che i "colleghi" repubblicani abbiano la compiacenza di votare insieme ai democratici e dare un taglio netto e definitivo ad una guerra ormai persa quasi per intero. E pazienza se gli estremisti islamici canteranno vittoria, son certo che ci saranno modi e tempi per infliggere loro sconfitte certe e "pesanti". Basta avere pazienza, la stessa pazienza che difetta al Presidente.
     
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  12. lupog
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    CITAZIONE (Drago Nero™ @ 13/7/2007, 21:47)


    Onestamente non m'importa se i Repubblicani vinceranno o perderanno le prossime elezioni, m'interessa molto di più la sorte dei tanti giovani che si battono, spesso in condizioni difficoltose, per costruire la democrazia dove, purtroppo, non la si potrà mai avere compiutamente. In fin dei conti, per il modesto parere di chi vi scrive, l'Iraq stesso non é tanto dissimile dall'Iran "atomico", dalla Siria "ombrosa" e dallo stesso Israele che non rappresenta un'anima candida.

    Ritiro, insomma, programmato sin quanto si vuole, ma pur sempre deciso ed attuato in tempi brevi ( condivisibile la data previsionale del 2008 ). Spero che i "colleghi" repubblicani abbiano la compiacenza di votare insieme ai democratici e dare un taglio netto e definitivo ad una guerra ormai persa quasi per intero. E pazienza se gli estremisti islamici canteranno vittoria, son certo che ci saranno modi e tempi per infliggere loro sconfitte certe e "pesanti". Basta avere pazienza, la stessa pazienza che difetta al Presidente.

    capisco e condivido drago la tua peoccupazione per le sorti dei giovaniu soldati americani usati come carne da macelllo dalla sconsiderata politica mediorientale di Bush.
    Ma come sai la politica non è fatta solo di slanci ideali, maanche di pratico ( e qualche volta cinico) realismo. E quello che io mi domando : è realista pensare che un ritiro dall'Irq mantenga immutate la possibilità di vittoria contro il terrorismo? non occorre anche provare a prefigurare il possibile scenario scaturente da un Iraq con le sue immense ricchezze in mano ad al Qaeda? le armi acquisite con i proventi derivanti dalle diponibilità petrolifere, verrebbero utilizzate da al Qaeda e affiliati in un ambito ristretto al mediooriente e al dar al islam o si rivolgerebbero minacciosamente anche verso l'Europa e gli USA?

    :unsure:
     
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  13. onestobender
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    CITAZIONE
    è realista pensare che un ritiro dall'Irq mantenga immutate la possibilità di vittoria contro il terrorismo?

    So che non è bello rispondere con una domanda ad una domanda ma io invece mi chiedo:
    è giusto restare a tutti i costi anche quando si è ampiamente dimostrato di non essere in grado (o più probabilmente di non volere, visto che l'industria bellica americana in questo periodo ha avuto una crescita molto decisa), di cambiare strategia?

    E mi ricollego alle sacrosante parole del nostro Drago:


    CITAZIONE
    Debbo dire che, sin dal termine del conflitto vero e proprio, mi ha sorpreso l'approssimazione con la quale il Pentagono ( che ultimamente non ci prende mai ) ha studiato l'evoluzione post bellica, praticamente non considerando il rischio terrorismo e limitandosi ad "aggiornare" le cartine in suo possesso o chiedendo l'invio di nuove truppe. Ho sempre sostenuto che non é il numero di soldati sul campo ( comunque importante ) a fare la differenza, ma il binomio tattica - strategia. Non occorre aver fatto la scuola di guerra di West Point per saperlo.

    Dal punto di vista tattico l'esperienza fatta in Iraq dagli USA sarà fandamentale per il futuro (almeno penso) ma da quello strategico al Pentagono brancolano proprio nel buio.

    Continuare a restare, senza capire che l'approccio strategico andrebbe completamente rivoluzionato non solo è sbagliato ma addirittura controproducente.
    Ragionando in modo concreto dico che colpendo i civili con armi tutt'altro che intelligenti (vedi i bombardamenti da alta quota in Afghanistan) non si combatte il terrorismo ma lo si alimenta.
    E mandandare a morire un soldato a causa della somma ignoranza di chi lo comanda, significa distruggere il morale degli altri, e si sa quanto conti il morale per l'efficienza psichico-operativa di un uomo armato (che in caso di basso morale tenderà a sparare a sé stesso, ai suoi compagni o in generale a tutto ciò che si muove).
     
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  14. lupog
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    CITAZIONE (onestobender @ 16/7/2007, 00:35)
    Dal punto di vista tattico l'esperienza fatta in Iraq dagli USA sarà fandamentale per il futuro (almeno penso) ma da quello strategico al Pentagono brancolano proprio nel buio.

    Continuare a restare, senza capire che l'approccio strategico andrebbe completamente rivoluzionato non solo è sbagliato ma addirittura controproducente.
    Ragionando in modo concreto dico che colpendo i civili con armi tutt'altro che intelligenti (vedi i bombardamenti da alta quota in Afghanistan) non si combatte il terrorismo ma lo si alimenta.
    E mandandare a morire un soldato a causa della somma ignoranza di chi lo comanda, significa distruggere il morale degli altri, e si sa quanto conti il morale per l'efficienza psichico-operativa di un uomo armato (che in caso di basso morale tenderà a sparare a sé stesso, ai suoi compagni o in generale a tutto ciò che si muove).

    che l'approccio iracheno di Bush e del pentagono sia stato disastroso non c'è dubbio e mi pare che su questo concordiamo . ma trovo che le vostre considerazioni condivisibili e giustissime pongano l'accento sulla necessità di cambiare strategia, non di ritirarsi dall'Iraq. perchè un ritiro immediato , nelle attuali condizioni , non troverebbe le forze di sicurezza irachene preparate a controllare il paese. credo che sia sbagliato quindi concentrarsi sull'opzione ritiro/non ritiro e che occorra focalizzarsi, facendo tesoro dell'esperienza fatta su ciò che occorre modificare nella gestione dell'avventura irachena. tornando all'aspetto poltico l'approccio prevalente in campo repubblicano in vista delle presidenziali ( e che io ovviamente condivido) consiste proprio nella necessità di una autocritica che però non faccia perdere di vista che l'obbiettivo deve rimanere la mormalizzazione della situazione in Iraq e che il ritiro non può essere la soluzione. L'approccio democratico allo stato attuale della campagna elettorale (che giova ricordarlo è pur sempre agli inizi e quindi sucesttibile di modificazioni) parla di un ritiro puro e semplice e ad es. sia in Hillary sia in Obama non parla di cosa fare dopo il ritiro. in pratica si sostiene: noi ci ritiriamo, le conseguenze a noi non interessano , gli iracheni si arrangino. un'approccio decisamente dozzinale per persone politicamente scaltre e (mi auguro) responsabili e proprio per questo ritengo costituisca un atteggiamento contingente e di propaganda. la vera poltica democratica sul tema quindi la vederemo più avanti. ma questa tengo a precisarlo è una mia opinione personale e costituisce più una spernza che una certezza.
     
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13 replies since 10/11/2006, 18:05   470 views
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