Università pubblica o privata?

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  1. keynes
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    Da alcune settimane si sta sviluppando un dibattito sulla rete tra illustri opinion-makers sull'utilità o meno della privatizzazione delle università. Su la voce.info il prof. Gianni De Fraja suggeriva la privatizzazione totale come soluzione radicale per il sistema universitario italiano, appoggiata in seguito da Antonio Mele su epistemes. Sempre su la voce.info Nicola Lacetera e Francesco Lissoni hanno espresso dubbi e critiche alla privatizzazione.
    De Fraja suggerisce che i costi fissi di una università siano relativamente bassi, e quindi consentano l’esistenza di numerosi istituti (quantificabili secondo il professore tra i 50 e i 200). Lacetera e Lissoni ritengono che non non vengono considerati i costi fissi per la ricerca,in particolare nelle scienze naturali, ingegneristiche e mediche che presenterebbero elevati costi fissi . In questo caso le economie di scala consiglierebbero la creazione università . Mel citando un lavoro sulle le top universities americane conclude che la proprietà privata o pubblica non sia importante. Sempre Mele sottolinea che le università americane, proprio per ovviare agli elevati costi fissi di gestione dei laboratori e strutture simili, avviano progetti di collaborazione con imprese private che necessitano di tali infrastrutture. Contro la privatizzazione si presenta l'ipotesi che la qualità dell'istruzione si abbassi per attirare studenti da laureare facilmente. Effettivamente alcune università anche in italia hanno abbassato notevolmente il loro standard qualitativo per consentire l'acquisizione del titolo di studio con meno fatica ad un maggior numero di studenti. Ma questo riguarda in ugual misura sia le università pubbliche che quelle private. A questo proposito e riguardo alle c.d asimettirie informative presenti nel settore universitario e della ricerca( ossia il fatto che gli studenti e le loro famiglie hanno poca possibilità di conoscere la qualità del servizio per cui pagano prima di averlo consumato )ho trovato convincenti le contro biezioni di Mele che riporto integralmente:

    una università ha tutto l’interesse ad avere una reputazione di eccellenza, ed è questa che attira gli studenti migliori e permette di assumere docenti di grido (che, lo ricordiamo, non vengono allettati solo da offerte economiche generose, ma valutano il clima di ricerca e le strutture che gli verranno messe a disposizione). Semplificando in modo estremo, la reputazione, in un contesto di informazione asimmetrica, è informazione privata rivelata al pubblico nel tempo. Costruendo una reputazione di eccellenza, una università segnala agli studenti e ai committenti di ricerche che è profittevole studiare da loro o finanziare una ricerca. Per costruire tale reputazione, deve effettivamente essere una università di eccellenza, ovvero deve produrre ricerca e laureati di qualità elevata.
    Ma, si può obiettare, come si misura questa qualità, visto che non è così semplice definire esattamente cosa significhi alta qualità nella ricerca o nella didattica? E anche in questo caso, la risposta esiste già: il mercato. Come ben sanno Lacetera e Lissoni, la ricerca viene valutata dai peers, ovvero dalla comunità scientifica mondiale. I ricercatori di tutto il mondo decidono se una ricerca è meritevole di pubblicazione perché fornisce un incremento della conoscenza nel campo di studio oggetto dell’indagine, o se invece è un contributo scadente. È questo che incentiva il ricercatore ad essere produttivo. I laureati vengono valutati dalle aziende, e nel mercato del lavoro l’università riceve una valutazione sul livello di preparazione dei suoi studenti. In base al riscontro sul mercato del lavoro, le università adattano la propria struttura didattica: per esempio, negli anni novanta la Bocconi, rilevato che il suo laureato tipico era ritenuto dalle aziende supponente ed arrogante, studiò alcuni cambiamenti di filosofia e di insegnamento che tentavano di ovviare al problema.


    In soldoni i neo laureati si devono confrontare con il mercato e con le richieste delle aziende. Una laurea con lode non serve a niente se dietro il pezzo di carta non si nasconde una preparazione adeguata alle esigenze dei datori del lavoro. Ed un modo per stimolare le università ad adempiere a questo loro compito può essere il metterle in concorrenza tra loro.

    Riguardo all'obiezione della perdita di posti di lavoro conseguente alla privatizzazione de Fraja argomenta:

    In molti casi la privatizzazione ha condotto a perdite di posti di lavoro. Penso che nessuno abbia dubbi che vi siano parti (geografiche, disciplinari e amministrative) del settore universitario dove licenziamenti siano necessari e salutari. Tra le condizioni per la vendita, ai potenziali compratori si potrà richiedere di specificare piani per l'occupazione (uso del pre-pensionamento, Tfr aggiuntivi e così via). Il principio generale, però dovrà essere che quello della perdita dei posti di lavoro è un problema meno serio che in molte privatizzazioni passate. In primo luogo, i confronti internazionali suggeriscono che in Italia il settore è troppo piccolo, non troppo grande: entro dieci anni dalla sua privatizzazione il settore universitario italiano impiegherebbe più personale, non meno. In secondo luogo, se un ateneo venisse chiuso, gli ex-dipendenti faranno meno fatica a trovare un nuovo lavoro di minatori o macchinisti di treno. Un bidello, un segretario, una direttrice di un ufficio amministrativo hanno più flessibilità. Se un ateneo chiudesse i suoi professori più interessati all'insegnamento potranno lavorare nelle scuole secondarie, quelli più interessati alla ricerca in altri atenei, in Italia o all'estero.

    Università pubblica o privata dunque? dal mio punto di vista è un falso problema. Negli Usa esistono accanto ad università private eccellenti università pubbliche come Berkeley o UCLA. Promuovere maggiormente le università private può però essere utile per mettere a confronto tra loro sistemi di gestione accademica diversi. Un sistema misto meno pubblico centrico potrebbe aiutare ad eliminare le storture del nostro sistema universitario . Mi riferisco al baronaggio e all'assenza di meritocrazia ed in questo senso è utile riproporre un'altra idea: eliminare il valore legale del titolo accademico che è uno strumento per assicurare il buon andamento delle carriere, mentre la valutazione delle competenze passa per ben altri binari. A un privato interessa non il titolo ma l'effettiva capacità del candidato, è auspicabile che anche nel pubblico si diffonda sempre più questo tipo di mentalità.




    fonti
    http://www.lavoce.info/news/view.php?id=29...k=2531&n_page=1
    http://www.lavoce.info/news/view.php?id=29...k=2531&n_page=2
    http://epistemes.org/2007/02/15/privatizza...dea-dopo-tutto/
    http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronach...29/stella.shtml
     
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  2. alias65
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    Statale!
     
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  3. Drago Nero™
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    Io mi sono laureato alla Cattolica di Milano e, successivamente, ho seguito un "post laurea" all'estero ( università privata ). Non posso esprimermi, anche se ho la ferma convinzione che i metodi d'insegnamento non sono così dissimili. Forse all'università statale mancano quei mezzi che le private hanno facendo pagare rette abbastanza "salate".
     
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2 replies since 6/5/2007, 21:04   638 views
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