Umberto II Re d'Italia

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    Apriamo questo topic per scrivere la biografia di Umberto II, l'ultimo re d'Italia.

    Biografia:

    Umberto nasce a Racconigi (paesino in provincia di cuneo) il 15 settembre 1904 e muore a Ginevra il 18 marzo 1983.

    Umberto è stato luogotenente del regno d'Italia dal 1944 al 1946 e Re d'Italia dal 9 maggio del 1946 al 2 giugno dello stesso anno (per questo breve periodo di regno fu detto Re di maggio). Il suo nome completo è Umberto Nicola Tomasso Giovanni Maria, Principe del Piemonte.

    Nato nel 1904 da Vittorio Emanuele III di Savoia ed Elena del Montenegro, Umberto riceve il titolo di principe di Piemonte in qualità di erede al trono d'Italia.

    Purtroppo la nascita del Principe, salutato da una folla enorme radunatasi davanti al castello, fu accompagnata da scioperi e disordini estesesi a tutta l’Italia tra il 16 e il 20 settembre: solo la sera di quel giorno il “grande uragano rosso” (come fu definito) ebbe termine.
    Il Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni Giovanni Giolitti stilò l’atto di nascita lo stesso 20 settembre, esercitando le sue funzioni di “Notaio della Corona”.
    Come per tutti i Principi di Casa Savoia e come in generale per tutti i Principi Reali delle Dinastie allora regnanti, l’educazione di Umberto fu molto severa. Unico maschio della Famiglia Reale (era stato preceduto dalle Principesse Reali Jolanda nel 1901 e Mafalda nel 1902 e sarà poi seguito dalle Principesse Reali Giovanna nel 1907 e Maria nel 1914) ed Erede al Trono, il Principe doveva necessariamente ricevere un’educazione, non soltanto secondo le tradizioni militari della sua Casa, ma che ne facesse un Principe, con le responsabilità future di un Sovrano costituzionale di uno Stato, già considerato grande potenza mondiale.

    Per volontà del Re suo padre fu dapprima affidato ad un severo collegio di maestri. Successivamente, a nove anni di età, il Re nominò il Capitano di Fregata della Regia Marina Attilio Bonaldi, uno dei suoi Aiutanti di Campo, “Governatore di Sua Altezza Reale il Principe Reale Ereditario”. Il neogovernatore proveniva da una famiglia di elevate virtù patriottiche, distintasi durante il Risorgimento: uomo di grande cultura e di alto intelletto, era stato anche uno dei primi comandanti di sommergibili della Regia Marina.
    Contrariamente a quanto successivamente sostenuto, tra il Principe e il Suo Governatore si stabilì una forte corrente di simpatia, confermata da numerose lettere scritte dal giovane Principe al suo Governatore e firmate “Pupo”, così chiamato dallo stesso Bonaldi e dalla Famiglia Reale, in alternativa al nomignolo “Beppo” (sua mamma la Regina Elena era solita chiamarlo così!).
    È interessante ricordare un episodio significativo nella vita del Principe e del suo educatore. Nel 1914 alla prima crociera dell’Erede al Trono sull’Incrociatore “Puglia”, il Governatore notò che il reale allievo si commuoveva fino ai lacrimoni davanti all’equipaggio. Molto decisamente e seccamente gli disse: «Altezza Reale, si ricordi che un futuro Re non piange mai!». Questo spartano modo educativo fu tuttavia bilanciato nel privato da un notevole slancio affettivo. Si può quindi concludere che l’educazione ricevuta dall’Ammiraglio Bonaldi, era stato promosso successivamente a questo grado, finì per preparare davvero il Principe Umberto al suo futuro ruolo dinastico.
    Un’idea di quella che poteva essere allora una giornata “normale” del giovane Principe?
    Di buonora religione con Mons. Beccaria, Cappellano Maggiore del Re; quindi lettere con il Prof. Taddei, seguite dalle lingue straniere con Gelosi e Paluani. Più tardi, studi militari (Colonnello Pietro Pintor, Comandante della Scuola di Guerra); ancora: matematica e scienze della finanza (Prof. Viali); diritto (Senatore Polacco); storia politica e coloniale (Prof. Mosca); storia dell’arte (Prof. Corrado Ricci); storia navale (Capitano Bettioli); educazione fisica (Gualdi). Inoltre, scherma con Sassone; inglese con Miss Brown e francese con il Prof. Gelosi. Ad insegnargli le scienze naturali fu direttamente lo stesso Bonaldi.
    Con la prima guerra mondiale, essendo Re Vittorio Emanuele III al fronte con i suoi soldati, il Principe Ereditario a meno di undici anni deve svolgere il ruolo della continuità dinastica. Il 6 giugno 1915, nel corso di una manifestazione patriottica, fu chiamato dalle grida della folla al balcone del Quirinale ed al suo apparire scatenò un vero e proprio delirio.

    A 14 anni il Principe entra nel Collegio Militare di Roma per tre anni: vi si distinse per la semplicità e camaraderie con gli altri allievi del Collegio, pur se i suoi rapporti con loro fossero necessariamente limitati, dovendo continuare le sue lezioni “private”.
    Fin da giovanissimo Umberto II manifestò un suo intimo fervore religioso, diremmo vicino al misticismo ed alla meditazione: è uno degli aspetti meno conosciuti del Sovrano. Non è da escludersi che questo poteva derivargli anche dal fervore religioso tipico dei cristiani ortodossi. Non dimentichiamo infatti che la Regina Elena era nata cristiana ortodossa: tali erano tutti i suoi parenti montenegrini e russi. Di questo suo fervore nel corso della sua vita ne restano notevoli tracce che spiegano anche molti dei suoi atteggiamenti. La sua era una fede profonda, un sentimento radicato, non un semplice rispetto delle tradizioni religiose ed egli rimase sempre credente e di una fede incrollabile.


    Educato secondo una rigida disciplina militare già nel corso della prima guerra mondiale, viene destinato al matrimonio con la principessa belga Maria José.

    Nel corso della prima guerra mondiale, il Principe di Piemonte incontra in Italia la Principessa che doveva diventare sua Consorte nel 1930, in occasione di una visita nel nostro Paese del Re e della Regina del Belgio. I due giovani si piacquero subito e nacque fra di loro una istintiva simpatia.
    L’educazione del Principe proseguiva con il passare degli anni, come proseguono le sue crociere istruttive su navi da guerra, sempre assieme all’Ammiraglio Bonaldi. Dopo essere stato all’Accademia Militare di Modena, nel novembre 1922 l’Erede al Trono viene nominato Sottotenente del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna: il suo giuramento avvenne il 20 novembre 1922 nella Caserma Umberto I a Roma alla presenza del Sovrano suo padre. In quest’occasione il Re invitò a colazione al Quirinale tutti gli ufficiali del reggimento di suo figlio.
    Il Principe Umberto è un ottimo militare, sia pure applicando una certa originalità alla rigida disciplina del Regio Esercito: fu un ufficiale molto amato dai suoi soldati e profondamente popolare con tutti gli ufficiali del suo reggimento. I suoi superiori militari lo riconoscono come un camerata affettuoso e contemporaneamente subordinato e deferente. La carriera dei Principi Reali è rapida: nel 1925 viene destinato con il grado di Tenente al 91° Reggimento Fanteria a Torino. Aveva 21 anni. Tre giorni dopo il suo arrivo si stabilì a Palazzo Reale, impiantandovi la sua “casa militare”: Primo Aiutante di Campo Generale fu il Generale Ambrogio Clerici. Era stata proclamata ufficialmente la sua maggiore età.
    Da questa epoca cominciano i non facili rapporti del Principe con il fascismo: Mussolini non nutriva per l’Erede al Trono una particolare simpatia, sentimento del resto condiviso dal Principe. Il Duce disapprovava la frequentazione del Principe di certi ambienti culturali torinesi: tra l’altro, s’infuriò moltissimo perché Umberto presenziò ad una conferenza del Prof. Pietro Silva, storico alla Facoltà di Magistero di Roma, in fama di antifascista.
    Il Generale Clerici ebbe quindi il non facile compito di districarsi: in tale frangente lo fece con grande abilità tenendo presente il contrasto esistente tra gli atteggiamenti e le simpatie dell’Erede al Trono e il Governo fascista. Ulteriore prova dell’ambiguità dei rapporti esistenti tra la Corona e la dittatura fascista per oltre un ventennio. Mussolini poi faceva controllare tutti i movimenti della Famiglia Reale come se si trattasse di semplici cittadini: ciò non poteva facilitare i rapporti tra il Sovrano e il suo Primo Ministro. È anche vero però che ufficialmente Casa Savoia fu costretta a controllare i suoi disaccordi con il fascismo tenendo presente l’indiscusso favore popolare e il seguito che il fascismo aveva da parte dalla maggioranza della popolazione.
    I vari provvedimenti del Governo - tra i quali le famose “leggi fascistissime” del 1926 (scioglimento dei partiti, annullamento dei passaporti, soppressione della stampa e delle associazioni avverse al regime, ecc. ecc.) - che il Re, nel suo intimo, essendo contrario allo Statuto, non poteva approvare, furono però accettati dalla Corona, costretta a considerarli come un adeguamento delle Istituzioni alla “nuova coscienza generale”, rappresentata dal consenso della nazione nei confronti del fascismo e del suo capo. D’altra parte la Corona, salvo il golpe militare, non disponeva di alcuno strumento costituzionale per sbarrare la strada alla dittatura. Tale concetto era lontanissimo dalla mentalità di Vittorio Emanuele III, strettamente ligia allo spirito dello Statuto. Certo è che tra Mussolini e il Sovrano cresceva continuamente una reciproca diffidenza.

    Durante gli anni del regime fascista segue una rapida carriera militare divenendo generale dell'esercito. Popolarissimo nel paese per il suo fisico avvenente (era chiamato le Prince Charmant ed era senza dubbio bellissimo, il più bel principe del suo tempo!) e le innumerevoli avventure rosa che si ricamano sul suo conto (famosissima la love story con la soubrette Milly), Umberto vive in realtà ai margini del regime fascista. Di formazione liberal-conservatrice, Umberto non suscita particolari simpatie in Benito Mussolini, che anzi raccoglie sul suo conto un dossier relativo alla presunta omosessualità del principe.

    Mussolini infatti iniziò già alla fine degli anni Venti a raccogliere sul principe ereditario un dossier da usare per ricattarlo.
    Con questo "dossier", dal quale provenivano le lettere che aveva in tasca al momento della cattura, il "duce" riuscì a tenere in pugno Umberto, arrivando a specificare con una "velina" ai giornali che egli non doveva essere definito "Principe ereditario" ma solo "Principe di Piemonte".
    A Umberto fece così capire che se non avesse rigato diritto lo avrebbe sostituto, al momento della morte del padre, con un altro Savoia o perfino col genero Gian Galeazzo Ciano. E se avesse protestato, ci sarebbe stato il "dossier" per screditarlo come "principe pederasta".

    Umberto era dotato di profonda cultura, appassionato ed esperto di studi storici e numismatici, aveva la dimensione morale e fisica dei personaggi carismatici; chi Lo incontrava ne avvertiva la eccezionale personalità e ne serbava un magnifico ricordo.

    Di animo buono e gentile, di intelletto agile e pronto,
    di cuore saldo e generoso, suscitava una simpatia istintiva commista ad un senso di devota ammirazione.
    Dotato di memoria prodigiosa, a distanza di anni era in grado riconoscere chi aveva incontrato in precedenti occasioni anche tra migliaia di persone.
    Diede sempre esempio didignità e di moderazione.
    In ogni occasione si comportò coraggiosamente: così allorchè subì un attentato a Bruxelles e durante la guerra di liberazione, quando l’Esercito degli Stati
    Uniti Lo propose per un’altissima decorazione al valore
    militare che rifiutò.

    L'8 gennaio 1930, nella cappella Paolina del Quirinale, si sposa con Maria José, principessa del Belgio. Umberto veste l'uniforme di colonnello di cavalleria. Secondo la leggenda sarebbe un matrimonio d'amore, ma la storia sarà comunque contrastata, a causa dei diversi interessi culturali, politici e sociali. In realtà fu davvero una storia d'amore, non è affatto vero che Umberto non amò mai la moglie!
    Dopo la funzione gli sposi sono ricevuti da Papa Pio XI, segnale di un progressivo disgelo fra l'Italia e il Vaticano.

    Maria Josè ed Umberto ebbero quattro figli!

    L’ostilità del fascismo verso il Principe Ereditario continuò successivamente a manifestarsi. Ad esempio, dopo la nascita della primogenita la Principessa Reale Maria Pia nel 1934, il Principe avrebbe volentieri voluto un comando militare effettivo: Mussolini riuscì a tenerlo fuori da tutto: dalla politica, dai comandi effettivi e dalle azioni di guerra proprio mentre stava per iniziare il conflitto in Etiopia.
    In quest’ultimo caso, almeno inizialmente, vi era stata una decisa opposizione del Sovrano ad ogni azione militare e Mussolini ne fu inizialmente frenato. Quando però la guerra scoppiò, il Duce mantenne ferma l’opinione che il Principe Ereditario dovesse essere escluso da questa avventura, sia per salvaguardare l’avvenire di Casa Savoia sia perché il Principe doveva preoccuparsi di dare un erede maschio alla Corona. La seconda ragione era evidentemente soltanto teorica.
    Il Principe rimase profondamente amareggiato di questa esclusione, ma, abituato ad obbedire e nel rispetto delle decisioni del Sovrano e del Governo, dovette adeguarvisi. Per quanto riguarda i giudizi sul Principe Umberto, è interessante osservare quello che disse di lui al Re Vittorio Emanuele III lo stimatissimo e valoroso Maresciallo Enrico Caviglia: «Maestà, il Principe è stimato da tutti i suoi superiori come un ottimo ufficiale e quando, il più tardi possibile, sarà chiamato a regnare, sarà senz’altro un grande Re».
    In quella particolare atmosfera patriottica, coinvolgente tutta l’Italia al tempo della guerra d’Etiopia, il Principe Ereditario altro non poteva fare che il suo dovere di Principe e di Ufficiale. Richiesto di donare oro alla Patria, offrì il suo Collare dell’Annunziata non consegnandolo di persona. Infatti era scontento: non gli piaceva fare il Generale d’ufficio, mentre i suoi due cugini, i Duchi di Bergamo e di Pistoia, avevano un comando di divisione in Etiopia. Pur dando come tutti gli italiani il suo apporto al Governo, trovava quasi derisorio l’essere stato chiamato, in quei giorni, a far parte del Consiglio Superiore dell’Esercito, organo che Mussolini neppure consultava. Si era oramai stancato di recitare il ruolo di “Principe di Rappresentanza”.
    Dopo il telegramma del Maresciallo Badoglio che annunziava l’entrata delle truppe italiane ad Addis Abeba e la fine delle operazioni militari, Re Vittorio Emanuele III, contravvenendo alle rigide tradizioni di Casa Savoia, comunicò personalmente la notizia al Principe Ereditario: forse la prima volta che il padre comunicava direttamente al figlio un evento politico che lo riguardava.
    Ed anche questa volta il contrasto Monarchia/Governo fu manifesto: il Re dovette ricordare al suo Primo Ministro di inserire nei documenti ufficiali che l’Impero - recentemente conquistato alla Corona di Casa Savoia - era “ereditario”. Mussolini se n’era dimenticato!, considerando la vittoria opera sua e lui il solo artefice. Questo dice già molto.
    Il 12 Febbraio 1937 nacque il Principe Vittorio Emanuele: la successione alla dinastia era così assicurata. 101 colpi di cannone salutarono questo evento: tutta Napoli scendeva in piazza. L’Italia si coprì di coccarde e di bandiere. Il battesimo ebbe luogo il primo giugno a Roma nella Cappella del Quirinale ed il Principe ebbe i nomi di Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria.
    Il “Corriere della Sera” scrisse in questa occasione: «È la storia che ci passa davanti: l’albero genealogico della più antica dinastia d’Europa, coi rami, le fronde, i fiori, i frutti, e in cima ad ogni ramo un cartiglio e un tondo, col nome e col volto...».
    La nascita del nuovo Principe non riequilibrò purtroppo i poteri all’interno della diarchia, ormai irrimediabilmente sbilanciati. Il Principe Umberto continuò ad esplicare i suoi doveri di Generale di Corpo d’Armata, ben conscio tuttavia delle crescenti difficoltà che l’atteggiamento di Mussolini creava nei suoi rapporti con il fascismo.
    Il più bell’esempio di tale contrasto (sia il Sovrano che il Principe Ereditario ne furono mortalmente offesi), fu l’investitura data a Mussolini nelle Forze Armate del grado di Primo Maresciallo dell’Impero: ciò poneva il Duce al di sopra di tutti i Generali. Naturalmente ne fu insignito anche il Sovrano che però veniva in ogni caso a perdere un’altra delle sue prerogative, quella di Capo delle Forze Armate, diventando parigrado con Mussolini.
    Ricordiamoci però le date: 1938! Il Re non poté parare il colpo. Il Duce era ormai troppo forte e del resto la legge che istituiva il nuovo grado fu approvata per acclamazione dal Senato del Regno. Il Re a Mussolini disse chiaramente: «Dopo la legge del Gran Consiglio, questo è un altro colpo mortale contro le mie prerogative sovrane. Le Camere non possono prendere iniziative anticostituzionali del genere. In altri tempi, di fronte a operazioni come questa, avrei preferito abdicare». Conoscendo il carattere del Sovrano, sempre stato molto geloso delle sue prerogative, lo avrebbe fatto senz’altro. Siamo tuttavia in piena crisi diplomatica per le pretese tedesche sull’Austria e sulla Cecoslovacchia. Abdicare in quel momento avrebbe significato lasciare l’Italia totalmente nelle mani di Mussolini. Il Re però ben sapeva che, per quanto fosse indebolita la sua posizione, la Monarchia rappresentava ancora per la maggioranza degli italiani l’unica àncora di salvezza.
    Mussolini provocava continuamente la Monarchia: voleva trovare il modo di disfarsene. Parlando con Ciano Mussolini fu esplicito: «Nella presa del potere potremo andare più in là alla prossima occasione. Questa sarà certamente quando alla firma rispettabile del Re si dovesse sostituire quella meno rispettabile del Principe». Più chiari di così!
    La visita ufficiale di Hitler in Italia, nel maggio 1938, con una Corona esplicitamente contraria al Führer, incoraggiò le smanie repubblicane del Duce. Del resto i nazisti chiaramente indicarono a Mussolini “l’ingombrante inutilità della Monarchia Italiana”.
    In quei giorni il Principe ereditario comparve solo di sfuggita; la Principessa e lui parteciparono esclusivamente alle cerimonie ufficiali di Napoli, loro residenza, mai altrove. Sotto il regime fascista non si poteva essere più espliciti.
    Negli sconvolgimenti degli ultimi anni ‘30 sia in campo nazionale che internazionale (il partito fascista elevato a organo costituzionale, tramite la Camera dei Fasci e delle Corporazioni; le leggi razziali; Monaco e il Patto a Quattro; l’annessione dell’Albania ecc.), la figura del Principe Umberto appena si intravede: egli non vuole assolutamente essere coinvolto in tutte queste faccende che personalmente non approvava affatto.
    Piccolo inciso: l’atteggiamento di Casa Savoia verso le leggi razziali era del tutto negativo. Ne è riprova quanto Re Vittorio Emanuele III disse a Mussolini durante un’udienza. Il Duce al Re: «Ci sono ventimila italiani con la schiena debole, Maestà, che si commuovono per la sorte degli ebrei». Il Re rispose gelido: «Fra quei ventimila italiani con la schiena debole ci sono anche io». Nella confusione del momento, con singolare incongruenza, Mussolini balbettò: «Certo Maestà, sono sentimenti che onorano la Maestà vostra».
    Seguendo la regola scritta della Dinastia (i Savoia regnano “uno alla volta”) egli sta fuori dalla scena: non vuole suscitare e creare difficoltà al padre. Nello stesso tempo, però, essendo colto ed intelligente riflette sulla situazione: i pericoli incombenti rafforzano il suo originale antifascismo. Il suo sentimento tuttavia doveva essere coltivato in silenzio, esprimendolo soltanto nella cerchia di amici fidati.
    In altre parole, il Principe Ereditario nella situazione del Paese e con l’indubbio quasi unanime appoggio popolare al fascismo, era costretto ancora una volta a quell’esercizio di doppia personalità, alla quale si era dovuto abituare facendo violenza a se stesso. Gli serviva per dissentire a determinati livelli ed in determinati ambienti, ma anche l’obbligava ad obbedire, come Principe e come militare.
    La lucidità del pensiero del Sovrano (siamo al momento dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940) è confermata da questo limpido “memo” fatto pervenire al figlio attraverso la Regina Elena:
    «1) Dire no alla guerra. Destituire Mussolini, che resta al suo posto e arresta il Re. Il Re allora lancia un appello all’Esercito fedele: è guerra civile. L’alleato tedesco arriva subito in aiuto a Mussolini: occupa l’Italia. Il Re viene fucilato e i due dittatori proseguono la guerra, che alla fine perderanno. La memoria del Re caduto sarà sacra, ma i morti della guerra civile dal Sovrano provocata potranno considerarsi un prezzo equo e giustificato per il trionfo della Monarchia?
    2) Oppure, il Re accetta la guerra, non vuole suscitare una guerra civile, quindi abdica e va in esilio, sciogliendo le forze armate dal giuramento, ed è esule in un paese neutrale. Hitler e Mussolini fanno la guerra, la perdono, gli alleati occupano l’Italia, il Re ritorna e riprende il trono. Gli italiani però non avranno scelta, avranno combattuto la guerra di Mussolini. Al suo rientro in Italia meriterebbe però il rispetto del popolo un sovrano andato comodamente in esilio mentre i suoi sudditi combattevano e soffrivano?
    3) Ultima alternativa: Hitler e Mussolini vincono la guerra: in questo caso il Re viene sicuramente cacciato, la Repubblica proclamata. Il Re è tuttavia convinto che i due dittatori alla fine perderanno: i vincitori e gli italiani riterranno il Re responsabile della guerra dichiarata e perduta come e più di Mussolini. La Monarchia sarà abolita e Mussolini viene cacciato. Sarà la Repubblica. Ma si potrà dire che in questo caso gli italiani avrebbero avuto torto?».
    Questo memo è una conferma della lucidità di Re Vittorio. Il Sovrano comprende le difficoltà in cui si troverà la Monarchia. Non ritiene necessario in ogni caso coinvolgere il figlio nelle sue decisioni per non comprometterlo. Re Vittorio tuttavia non si rende conto che sarà proprio il Principe Ereditario a doversi confrontare con le difficoltà di una guerra perduta e con le scelte, sia pure senza alternativa, prese dal padre.
    Questa era la difficilissima posizione del Principe Umberto in quegli anni tragici per la nostra Patria. Dal 1938 egli accentua il suo dualismo di sempre: ufficialmente vive da Generale disciplinato e da Principe ligio agli ordini del Padre; privatamente cerca di trovare alternative alle previsioni pessimistiche del Sovrano. Purtroppo per lui è troppo tardi.
    Ciano annoterà nel suo diario:
    «Lungo colloquio con il Principe di Piemonte. Benché sia stato con me cortese personalmente, pure ho sentito nel suo animo molta amarezza... Ha criticato con parole aperte il sistema in genere e la stampa in particolare. Vive nell’ambiente militare ed ha assorbito in questi mesi una buona dose di veleno che in lui ha fatto effetto... Non ha né l’esperienza né l’acume del padre benché io lo ritenga di gran lunga superiore alla sua fama». Ciano ha ragione solo parzialmente: il Principe Ereditario sa invece sceverare benissimo la situazione; è logico che, come Principe Ereditario, non può fare una politica diversa da quella del Sovrano. Anzi deve obbedire, i Principi Reali non fanno politica.
    All’entrata in guerra dell’Italia, il Re desidererebbe che il Principe uscisse dal suo anonimato ed assumesse le sue responsabilità militari. Mussolini invece è contrarissimo: così il Generale Umberto di Savoia viene soltanto nominato Ispettore delle Armate sul fronte francese: un incarico di carta.
    Finita la campagna di Francia, il Principe riprende le sue ispezioni militari nella penisola. Aspirerebbe invece ad un comando in Africa ma non c’è nulla da fare. Nell’aprile del 1942 è nominato teoricamente Comandante del Gruppo Armato Sud, dove l’autorità effettiva è già in mano al Feldmaresciallo tedesco Kesserling.
    Siamo vicini all’8 settembre 1943. Il fascismo “ha ripiegato le vele”: non è riuscito a defenestrare la Corona ed è ad essa che si rivolgono le speranze degli italiani. D’altra parte fino allora era impensabile che un colpo di Stato della Corona potesse defenestrare il Duce che aveva ancora dalla sua parte un ampio assenso popolare. Dopo la guerra però molte cose avrebbero dovuto cambiare.
    I Principi di Piemonte continuano ad essere indicati negli ambienti fascisti come ostili alla guerra ma anche in continua ascesa nel favore della pubblica opinione. Il Principe critica sempre di più l’organizzazione militare e il regime e viene considerato da moltissimi ambienti - anche in Vaticano - come la salvaguardia della Monarchia dopo Mussolini.
    Sorvoliamo su tutte le voci e le storie sull’attività antifascista della Principessa Maria José: fece quanto possibile, attraverso vari contatti, per modificare la difficile situazione della Monarchia in quelle circostanze. Non ebbero alcun peso essendo impensabile che la Principessa avesse una qualche influenza sulla politica italiana. Siamo rimasti nel campo di ipotesi, di piani fantasiosi e di approcci col nemico del tutto irreali.
    Nel 1943 fu conferito al Principe Ereditario il grado di Maresciallo d’Italia. Si consolidò anche la sua sensazione che l’atteggiamento di “disciplinato figlio in uniforme del Sovrano” fosse oramai irrazionale e pericoloso. Purtroppo le sue idee chiare e precise al riguardo avrebbero comportato una ribellione al Governo ed al Re: nelle Monarchie ciò non è ipotizzabile.
    Sappiamo tutti come andarono le cose. Il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini il 24 luglio 1943: il Re ebbe così l’appiglio costituzionale per dimettere il suo Primo Ministro e sostituirlo con il Maresciallo Pietro Badoglio.
    Il Governo Badoglio nei suoi primi 45 giorni cominciò immediatamente a cercare di far uscire l’Italia dal conflitto, rivelatosi totalmente perduto per l’Italia, che per di più non aveva più alcuna possibilità di giovare militarmente all’alleato tedesco. La situazione era di una gravità estrema ed era anche estremamente difficile arrivare ad un armistizio con gli alleati, senza provocare la violenta reazione dell’alleato tedesco.
    Le trattative furono condotte abbastanza maldestramente: non ci si rendeva conto che gli Alleati, come da loro dichiarazioni precedenti, non avrebbero accettato che una resa incondizionata. Il 3 settembre fu firmato l’armistizio di Cassibile ma è tuttora fonte di discussione quale fosse stata la data precisa dell’annuncio ufficiale dell’armistizio.
    Il Generale Carboni, Comandante del Corpo d’Armata Motocorazzato vicino a Roma (praticamente l’unica unità vicina alla capitale che avrebbe potuto e dovuto contrastare una reazione tedesca), si comportò con il Generale U.S.A. Taylor - venuto a Roma per concordare con lo S.M.R.E. il lancio di una divisione aereotrasportata vicino alla capitale - in maniera così equivoca e così poco lineare, che l’americano ritornò immediatamente ad Algeri convinto che gli italiani “ciurlassero nel manico”.
    Aggiungerò, per delineare le responsabilità gravissime del Generale Carboni con le conseguenze disastrose che il suo atteggiamento ebbe susseguentemente, che al Consiglio della Corona, del quale egli faceva parte, convocato dal Re lo stesso 8 settembre, dopo che alle ore 14,00 Radio Algeri aveva già annunziato unilateralmente l’armistizio, questo ufficiale non si peritò di richiedere l’annullamento dell’armistizio e la continuazione della guerra contro gli Alleati! No comment.
    Il Re si prese da solo la responsabilità di accettare l’armistizio nelle difficili condizioni che questo ambiguo anticipo avrebbe creato al Governo ed alle Forze Armate Italiane. Ciò comportò inevitabilmente, date le circostanze, che il Re ed il suo Governo furono costretti a lasciare Roma per non cadere nelle mani dei tedeschi. Conosciamo bene le discussioni in argomento, ma pochi si resero conto, allora come oggi, delle conseguenze che ne sarebbero scaturite se il Capo dello Stato e il Governo fossero rimasti a Roma: annullamento immediato dell’armistizio, prigionia tedesca del Re il che avrebbe significato che nessuna istituzione legittima avrebbe potuto garantire l’armistizio testé firmato. Le disgrazie per la nostra patria e le conseguenze di tutto ciò sarebbero state ancora peggiori.
    Ricordiamoci - e nessuno mai lo dice - che i tedeschi avevano già messo a punto un piano per la cattura del Sovrano e della Famiglia Reale. Se questo piano fosse riuscito, l’Italia sarebbe stata rappresentata soltanto dai “Quisling” di Mussolini a Salò e la Monarchia non avrebbe potuto instaurare al Sud quel nuovo rapporto con gli anglo-americani, con i quali aveva firmato un armistizio.
    Ma sulla cosiddetta “fuga” del Re e del Governo da Roma, molto si è detto e molto si dovrebbe ancora scrivere per ristabilire la verità di quei fatti. Poiché qui parliamo di Umberto II, non è il caso di entrare in questo argomento.
    Quale fu l’atteggiamento del Principe di Piemonte in quei tragici giorni, seguendo il Sovrano suo Padre ed il Governo nel trasferimento da Roma a Brindisi? La storiografia ufficiale parla spesso del desiderio espresso dal Principe di ritornare a Roma: prendere il comando delle truppe nella capitale ed in Italia per resistere ai tedeschi con un Principe di Casa Savoia alla loro testa. Da un punto di vista sentimentale, il desiderio dell’Erede al Trono era più che giustificato: del resto esso rientrava esattamente nella mentalità generosa di Umberto.
    Senonché il Principe dovette rapidamente comprendere l’impossibilità di un tale gesto: il Re aveva 74 anni, dei quali ben 43 di difficile regno che indubbiamente avevano logorato la fibra del Sovrano. Umberto era l’Erede al Trono, suo figlio, un bambino di 6 anni, stava per passare in Svizzera. La continuità della Dinastia e del suo capo, unici garanti dell’armistizio di fronte agli alleati, era quindi affidata non solo al Re, ma anche all’unico figlio. Il Principe Umberto non poteva quindi ritornare a Roma: gesto eroico sì e che forse avrebbe salvato la Dinastia, ma al prezzo della rovina del futuro della Patria.
    Umberto pertanto seguì il Padre a Brindisi: al Sud è determinante nello stabilire con gli Alleati un rapporto di collaborazione di primissimo ordine, facendo di tutto per attenuare le dure condizioni dell’armistizio. Mette in opera tutta la sua influenza per ricostituire l’Esercito e le Forze Armate rimaste al Sud, tra le quali preminente la Regia Marina (che, non dimentichiamolo, salpò per Malta solo ed esclusivamente per eseguire gli ordini del Re).
    A poco a poco la personalità del Principe di Piemonte, sempre nel rispetto delle prerogative e della figura del Sovrano, si fa sempre più importante. Sempre più apprezzato è il Principe, sia dagli Alleati come da quegli uomini politici al Sud coi quali aveva a che fare. Purtroppo per la maggior parte di costoro l’unico scopo era l’abbattimento della Monarchia e non il portare l’Italia ad una pace quanto meno onerosa possibile. (Per inciso dirò che la popolarità del Principe con gli Alleati ebbe una conferma straordinaria in occasione della visita che Re Umberto, oramai in Esilio, fece in America nel 1963. Fu ricevuto dal Presidente Eisenhower a Washington come un Capo di Stato; con il Generale Mark W. Clark, già comandante delle truppe americane e poi di tutte le truppe alleate sul fronte italiano, visitò numerose installazioni militari negli Stati Uniti).

    Nel frattempo Mussolini, liberato dalle truppe naziste, aveva proclamato la Repubblica di Salò (con se stesso come presidente) nella parte settentrionale d'Italia, ancora sotto il controllo delle truppe nazifasciste. I Savoia furono attaccati dalla stampa fascista, ed iniziarono ad apparire le prime accuse d'omosessualità contro Umberto, soprannominato "Stellassa".
    Il famoso dossier ricattatorio si era infine rivelato utile.

    Sotto pressione degli Alleati, continuamente pungolati dai politici italiani al Sud perché risolvessero il problema della Monarchia e della persona di Vittorio Emanuele III, il 12 aprile 1944 il Re fu costretto a delegare all’Erede al Trono la Luogotenenza Generale del Regno, con effetto dalla liberazione di Roma. Il vecchio Sovrano, pur rimanendo nominalmente Re d’Italia, si ritirò a vita privata.
    Con la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, l’Erede al Trono Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, assume l’incarico di Luogotenente Generale del Regno (si noti l’espressione voluta dai politici italiani: “del Regno”, non “del Re”, come era avvenuto nel 1915-18 quando, con l’assenza del Re da Roma trasferitosi al fronte, lo zio Tommaso Duca di Genova fu nominato Luogotenente Generale del Re), altra prova dell’accanimento politico contro la Monarchia degli uomini politici di allora.
    Quindi a tutti gli effetti è vero che Umberto di Savoia diventò sì, nominalmente, Re con l’abdicazione del padre nel maggio 1946, ma in realtà fu Re effettivo d’Italia fin dal giugno 1944. È pertanto errato definirlo “il Re di Maggio”.
    Per il Principe Umberto il periodo della luogotenenza fu quantomai difficile. Aveva contro tutti i partiti politici allora esistenti e tra questi si distingueva per fanatismo e accesa propaganda antimonarchica il piccolo Partito d’Azione (destinato a scomparire dopo pochi anni di Repubblica), pur composto da uomini di grande levatura e professionalità.
    Tra i suoi compiti, quello di cercare di aumentare la partecipazione alla campagna militare degli Alleati sul nostro territorio delle truppe del Regio Esercito. Avremo così prima il Raggruppamento Motorizzato, poi il Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.), infine i Gruppi di Combattimento nell’ultima fase della campagna d’Italia (gennaio-aprile 1945) dopo lo sfondamento della linea gotica. A questa, purtroppo, le truppe italiane non parteciparono perché il C.I.L. fu ritirato dal fronte a fine agosto 1944 per permettere l’organizzazione dei gruppi di combattimento.
    Durante la Luogotenenza il Principe Umberto visitava di continuo i soldati al fronte (come pure le truppe alleate, specie i polacchi del Generale Anders che lo accolsero sempre con gradissimo entusiasmo). Politicamente egli agì sempre con grande equilibrio, misura e competenza - e soprattutto grande spirito di sacrificio - nel difficile incarico affidatogli dal padre.
    Doveva agire, non dimentichiamolo, in un contesto politico ostile dove molte delle sue prerogative, spettanti costituzionalmente e secondo lo Statuto al Sovrano, non gli furono riconosciute. Esempio il giuramento dei Ministri, che pure erano Ministri del Regno, non menzionava più la figura del Re, tuttora Capo dello Stato: si trattava di un giuramento fasullo e del tutto irrilevante, con un vago riferimento alla Patria ed alla Nazione.
    Le rivalità, le liti, le piccinerie, le ambizioni degli uomini politici italiani anche a quell’epoca sono ben descritte nelle memorie del Ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Il Luogotenente prima e il Re dopo mantenne sempre un atteggiamento di comprensione, di pazienza, di interesse nei confronti di quel mondo politico di allora, già così rissoso, il che valse al Luogotenente Generale un ampio riconoscimento da parte di questi personaggi tra i quali rarissimi erano i monarchici.
    Uno dei più interessanti giudizi su Umberto Luogotenente Generale del Regno è quello di Churchill, in Italia nell’agosto 1944 per essere presente all’inizio dell’offensiva dell’Ottava Armata Britannica sull’Adriatico per lo sfondamento della Linea Gotica. Nelle sue memorie, il Primo Ministro inglese così si esprime: «All’Ambasciata Inglese a Roma incontrai per la prima volta il Principe Umberto, che era allora Luogotenente Generale del Regno, il Capo effettivo dello Stato e Comandante delle Truppe Italiane combattenti. La sua brillante e interessante personalità, la sua completa comprensione di tutta la situazione, militare e politica, mi diede un senso di vivo compiacimento e maggiore fiducia di quanta me ne avevano dato le conversazioni con i vari rappresentanti dei partiti politici. Io sperai vivamente che egli potesse avere una parte importante nella creazione di una Monarchia Costituzionale in un’Italia libera, forte e unita». Può essere interessante un commento del Luogotenente al termine del suo incontro con Churchill (riferito dal Capitano di Fregato Rodolfo Balbo, allora Aiutante di Campo del Principe): «Ce n’è voluto per portare in porto questo incontro perché Churchill non voleva assolutamente saperne di vedere né Bonomi né Badoglio. Sono stato io ad insistere perché, oltretutto, non volevo che si dicesse che armeggio per mantenermi a galla col suo aiuto straniero».
    Sono frasi e giudizi importanti che dipingono effettivamente la personalità di Umberto di Savoia e quale Sovrano egli sarebbe stato per l’Italia.
    Il Luogotenente Generale tenne anche a sottolineare i rapporti eccellenti esistenti fra il Quirinale e il Vaticano: per la prima volta, nell’inverno del 1946, volle dare un grande ricevimento al Quirinale per ricevervi i nuovi Cardinali nominati da Sua Santità Pio XII nell’ultimo Concistoro.
    Nel maggio 1946 Re Vittorio Emanuele III decide di abdicare sacrificando, dopo 46 anni di regno, la sua persona e conoscendo quanto, sia pure ingiustamente, egli fosse ritenuto un ostacolo al mantenimento della Monarchia.
    Umberto di Savoia diventa così Re d’Italia. Il popolo romano volle tributargli un’entusiastica manifestazione di fedeltà e di affetto in Piazza del Quirinale, piena zeppa, chiamando ripetutamente al balcone il Re, la Regina ed i Principi Reali.
    Com’era da attendersi, i partiti politici fecero fuoco e fiamme per questa abdicazione ritenuta contraria al patto di tregua istituzionale che essi consideravano istituitosi con l’assunzione da parte del Principe Umberto della funzione di Luogotenente Generale del Regno. Poiché tutto era però avvenuto nella più stretta legalità istituzionale, furenti si rassegnarono ad accettare l’assunzione al trono di Re Umberto II.
    Tralasciamo le vicissitudini della campagna elettorale per la Costituente (mai campagna elettorale politica fu meno serena e più condizionata dagli avversari della Monarchia di questa). Veniamo adesso al Referendum. Come premessa bisogna ricordare che il Referendum fu possibile solo e in quanto istituito con atto personale e firma del Luogotenente Generale del Regno nelle sue capacità di Capo dello Stato. Un Referendum, che lo si voglia o meno, concesso da colui che era allora in Italia il Sovrano effettivo.
    Fu anzi proprio il Luogotenente Generale ad insistere per il Referendum come scelta per la decisione sulla forma istituzionale dello Stato piuttosto che lasciare ad un’Assemblea Costituente tale decisione.
    Il Principe affermò che il Referendum era in questo caso la forma migliore: il popolo intero poteva così decidere direttamente su una questione così importante. Non tramite uomini politici che, anche se eletti dal popolo, sarebbero stati altamente influenzabili in un’eventuale Assemblea Costituente.
    Nel mese prima del Referendum, Re Umberto fece il possibile per rinforzare la Monarchia. Indubbiamente la sua personalità, il suo fascino, la sua semplicità e la sua grande disponibilità nei confronti di tutto e di tutti contribuirono notevolmente a dare alla Monarchia il grande numero di voti ottenuti nel Referendum. Il Re si rendeva però perfettamente conto come tale Referendum non poteva essere veramente determinante per il futuro dell’Italia, date le condizioni eccezionali in cui doveva tenersi. Si pensi che nel 1946 non votarono ben 600.000 italiani, ancora prigionieri di guerra e non rientrati. Inoltre non votarono le province di Trento, Bolzano, Udine e Trieste, ancora sotto regime militare alleato, come pure non votarono molte persone che per una ragione o per l’altra avevano perso il diritto al voto.
    In una situazione così poco chiara e così poco democratica, il Re volle essere straordinariamente corretto, tanto da promettere ufficialmente al popolo italiano un secondo Referendum confermativo ove la Monarchia avesse vinto con un’esigua maggioranza: davvero più democratici di così non si poteva essere.
    La Repubblica ufficialmente vinse con 12.672.767 voti contro 10.684.905 dei Monarchici. La differenza era praticamente di due milioni, pertanto molto esigua. Queste cifre fanno comprendere quanto sarebbe stato necessario che gli italiani potessero fare una vera scelta al di fuori delle tensioni del 1946, rinviando il Referendum almeno di un anno. L’ironia della sorte volle che, malgrado che la Repubblica si sia reiteratamente e monotamente sempre proclamata antifascista, buona parte dei voti ottenuti furono quelli dei fascisti repubblicani di Salò!
    In ogni caso, data l’incertezza dei risultati, il Presidente della Corte di Cassazione, Sua Eccellenza Pagano, nel proclamare le cifre della consultazione concluse: «La Corte, a norma dell’art. 19, omissis, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, proteste, reclami presentati agli uffici delle singole sezioni, a quelle centrali e circoscrizionali e alla Corte stessa... Integrerà il risultato con quello delle sezioni ancora mancanti e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti, dei voti nulli e di quelli attribuiti». Questo avveniva il 5 giugno 1946.
    Mentre la Corte di Cassazione esprimeva grossi dubbi sulla validità delle votazioni, nel Governo l’impazienza cresceva e pochi si dimostravano disposti ad attendere che la Corte terminasse i controlli annunciati, come sarebbe stato democratico e logico, ed in base a questi proclamasse finalmente a Repubblica.
    Cominciò allora quella lotta sorda e sottile tra il Governo ed il Sovrano. Il Re ritenne doveroso far partire immediatamente per il Portogallo la Regina e i suoi figli e per l’estero tutti i Principi Reali (meno la vecchia Duchessa d’Aosta alla quale permise di rimanere a Napoli). Il Re disse tuttavia che lui sarebbe partito soltanto quando la Corte di Cassazione avesse verificato i risultati definitivi del Referendum. Il Governo, molto poco diplomaticamente, tentò di offrire la sua garanzia sui risultati e la legalità del Referendum: dichiarazione del tutto inaccettabile essendo il Governo parte direttamente in causa, tanto che De Gasperi se ne rese immediatamente conto comprendendo la risposta del Sovrano: in essa si diceva chiaramente che la proclamazione di un Governo Repubblicano prima della decisione della Corte di Cassazione sarebbe stata un’illegalità.
    La situazione era molto difficile. Dalla parte del Sovrano ben dieci milioni di italiani oltre a quasi tutte le Forze Armate ed ai Carabinieri Reali. Gli Alleati, tuttavia, praticamente aventi ancora il controllo effettivo del Paese, avevano dichiarato che la posizione del Re nei confronti del Paese non era cambiata con la lettura dei voti, visto che la Corte di Cassazione aveva semplicemente deciso di non decidere. In proposito fu molto esplicito l’Ambasciatore britannico Sir Noel Charles il quale disse chiaramente: «Inglesi ed Americani non desiderano che il Governo Italiano assuma una posizione in contrasto con le decisioni della Corte di Cassazione». Più dubbi di questi da parte di osservatori neutrali come gli anglo-americani, non si potevano esprimere.
    Nell’incertezza della situazione, il 12 giugno il Re indirizzò una ferma lettera al Governo: «... ancora una volta confermo la mia decisa volontà di rispettare il responso del popolo italiano espresso dagli elettori votanti quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Suprema Corte di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo. ... è mio desiderio di apportare il massimo contributi alla pacificazione degli spiriti, sono sicuro che possiamo continuare quella collaborazione intesa a mantenere quanto è veramente indispensabile: l’unità d’Italia». Il Sovrano si confermava così di animo e sentimenti profondamente democratici: purtroppo il suo atteggiamento era patetico perché egli non si rendeva conto quanto i suoi richiami alla legalità non volessero essere accettati dal Governo; era un intervento inutile. I ministri nella maggioranza si consideravano rivoluzionari, non tenevano conto della legalità ed, anzi, si sentivano in realtà gli eredi di Piazzale Loreto!
    Momento tragico ed indubbiamente gravissimo: poteva scoppiare uno scontro armato tra un’Italia meridionale e monarchica e un’Italia settentrionale relativamente repubblicana. Attorno al Re i suoi Consiglieri erano divisi fra coloro fautori di un gesto di forza e altri di attendere le decisione della Corte di Cassazione.
    Nella notte fra il 12 e il 13, per sua sicurezza personale, il Re dormì in casa di un amico.
    In quella notte tuttavia accadde l’imprevedibile: il Governo tagliò la testa al toro. Effettuò cioè un vero e proprio colpo di Stato proclamando “Capo Provvisorio dello Stato” De Gasperi, con il Re ancora a Roma e la Corte di Cassazione indecisa sui risultati definitivi del Referendum. Chiaramente fu un gesto altamente illegale.
    Nelle circostanze, Re Umberto misurò la sua statura, dimostrando il suo equilibrio, il suo senso dello Stato, nella forza della tradizione millenaria che sapeva di avere in lui. Il Sovrano prima di tutto ed unicamente pensa all’Italia: in questa prospettiva Umberto II piglia la decisione che lo consegna alla storia.
    Esaminiamo tuttavia le alternative, possibili e fattibili la mattina del 13 giugno 1943 da parte del Re:
    1) dichiarare il Governo decaduto, costituirne uno nuovo: inchiesta sul Referendum e nuova consultazione;
    2) non tener conto del colpo di Stato del Governo e rimanere a Roma fino al giudizio della Cassazione, previsto per il 18 giugno;
    3) emanare un proclama denunciando l’usurpazione e appellandosi al popolo;
    4) lasciare l’Italia alla luce del sole, con gli onori di rito, nessuna abdicazione, nessun passaggio di poteri, proclama alla Nazione.
    Ai molti pareri contrari, fra i quali quelli che insistevano per la maniera forte, il Re rispose di non volere la responsabilità di un’altra guerra civile, dopo i disastri in ’Italia tra il 1943 e il 1945. Rifiutò ringraziando l’appoggio di coloro che glielo offrirono (decorati, reduci ecc. ecc.), come declinò l’aiuto del Generale Anders e delle sue truppe polacche. Scelse la quarta soluzione.
    Partendo, nel cortile del Quirinale abbracciò il Duca Maggiore Riario Sforza Comandante dei Corazzieri e nel suo abbraccio comprese tutte le Forze Armate Regie. Arrivati a Ciampino non salutò i due Ministri del Governo, l’Ammiraglio de Courten della Marina e l’on. Cevolotto dell’Aeronautica, non riconoscendo più il Governo del quale facevano parte. Partì per Lisbona col suo piccolo seguito ed ebbe una traversata quanto mai burrascosa, atterrando prima a Madrid. In piena tempesta il pilota chiese al Re il permesso di tornare in Italia: gli fu risposto «Vada avanti, qualsiasi cosa succeda».
    Il 18 giugno la Corte di Cassazione, dopo aver esaminato finalmente i vari ricorsi ecc. ecc., si limitò a dire soltanto il numero dei voti della Repubblica e quelli della Monarchia. Dopodiché il Presidente Pagano si alzò, lasciò la sala, senza pronunciare la formula che tutti si attendevano: «...in base ai risultati del Referendum si dichiara decaduta la Monarchia di Casa Savoia e si proclama la Repubblica Italiana». Il paradosso della nascita di questa Repubblica è tutto qui: essa non è mai stata proclamata ufficialmente.
    Così Umberto II lasciò l’Italia per un esilio da cui non poté mai più ritornare. Ma la lasciò da Re perché non abdicò mai: non era più Re d’Italia perché l’Italia era una Repubblica, ma era pur sempre il Re e tale rimase fino all’ultimo dei suoi giorni.
    L’Italia è una Repubblica “de facto” da 58 anni: oggi è abbastanza solida, accettata e riconosciuta dalla maggioranza degli italiani. Non si comprende quindi perché si ostina a disconoscere la verità che ne fu alla nascita: un atteggiamento che ne rafforzerebbe invece il prestigio e la sicurezza. Ricordiamo infatti:
    1) il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica fu un vero e proprio colpo di Stato: se esso fu relativamente incruento (salvo i noti moti di Napoli), questo fu dovuto a Re Umberto II.
    Le Forze Armate, ancora strettamente legate dal giuramento di fedeltà al Sovrano (la Marina e i Carabinieri prima di tutti), erano nella massima parte monarchiche. Ad un ordine sarebbero state senz’altro pronte a reagire al colpo di Stato governativo e la loro crisi di coscienza fu superata solo dalla fedeltà al Sovrano ed all’obbedienza che come militari gli dovevano. E così fu evitato all’Italia un passaggio istituzionale assai più difficile e controverso.
    2) Come seconda conseguenza, si può dire l’assoluta inutilità dell’esilio forzato del Sovrano e del suo Erede maschio prorogatosi per più di 60 anni. Si poteva anche comprendere nei primi anni della Repubblica, dato che metà degli italiani aveva votato Monarchia. Ma già dal 1950 era diventato altamente ingiusto.
    Umberto II in esilio fu sempre il Re: come tale agì e si comportò fino al momento della sua scomparsa, nel 1983.
    Riceveva gli italiani a Villa Italia, ben pochi di coloro che erano di passaggio in Portogallo non si recavano a visitarlo. Il Re si teneva al corrente delle vicissitudini italiane, sia di cronaca che politiche, interveniva col suo aiuto finanziario, inviando i suoi rappresentanti - Principi reali o funzionari di Corte - ogniqualvolta riteneva necessaria la presenza della Monarchia negli eventi della Patria.
    Gli avvenimenti felici italiani formavano la sua felicità; gli eventi tristi, quali ad esempio la tragedia del Vajont (proprio durante la sua visita americana), lo colpivano profondamente. Il suo rammarico ed il suo dolore furono sempre non poter essere vicino di persona agli italiani che soffrivano. La mancanza della Patria fu per Re Umberto II la più grande pena ed il più grande dolore, dal quale non riuscì mai a guarire in tutto il suo lungo esilio.
    Citerò un episodio personale che conferma questo suo atteggiamento e l’amore verso una Patria, con lui mai stata molto generosa. In una delle mie visite al Re, d’estate, quando mi recavo in vacanza nell’Algarve, come tutti gli anni chiedevo per mia moglie e per me un’udienza al Sovrano. Ci ha sempre ricevuti con la cordialità e la disponibilità ripetutamente dimostrata verso le nostre famiglie. Mi pare fosse nell’agosto del 1975: Gheddafi espulse dalla Libia tutti gli italiani. La nostra visita al Re fu ritardata di alcune ore perché era assente e ritornava di lì a poco. Quando fummo ricevuti, scusandosi per il ritardo, disse che era appena ritornato in volo dal Marocco: si era recato dal suo amico Re Hassan II per chiedergli, come sovrano musulmano, di intervenire presso Gheddafi ed alleviare le pene e le sofferenze degli italiani espulsi dalla Libia dopo generazioni di lavoro in quel Paese. A tanti anni di distanza dall’inizio del suo esilio, Re Umberto pensava ancora al bene di coloro che erano stati i suoi sudditi.
    Molto altro su Re Umberto non c’è da aggiungere. Possiamo però sottolineare che i 37 anni del suo esilio sono stati esemplari per la dignità con la quale il Sovrano sopportò questa immensa pena: sono stati gli anni nei quali questo Re ha manifestato la pienezza di una regalità che per esprimersi non ha avuto bisogno né di reggia né di trono.
    Riporto ancora l’osservazione del Comandante Rodolfo Balbo sulla Monarchia, riferita a Re Umberto II: «... con l’inaridirsi delle radici stesse delle Monarchie, queste possono sopravvivere ed anche prosperare soltanto se fondate sull’accordo emotivo che un sovrano riesce a stabilire con il suo popolo. Ciò che, ne sono certo avrebbe potuto fare Umberto II».
    Ed a questo punto leggo un significativo periodo del bellissimo proclama di saluto agli italiani quando partì per l’esilio il 12 giugno 1946:
    «Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o subire la violenza ... ... ... A tutti coloro che conservano ancora fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo colmo di dolore ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome dell’Italia e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia».
    La morte in esilio di Re Umberto II è stata il coronamento delle sue sofferenze. Sono anche io dell’avviso di alcuni che far rientrare all’ultimo momento il Sovrano morente in Italia, non avrebbe certo giovato all’immagine ormai formatasi negli italiani, monarchici e repubblicani, di un uomo dignitoso anche nelle circostanze più terribili; di un uomo forte nel dolore; di un Re ligio ad una legge repubblicana che ha voluto estraniare lui e tutta la Dinastia dalla nostra Patria e dalla storia d’Italia, dinastia alla quale si deve l’indipendenza e l’unità italiane. In fondo, dobbiamo esserne lieti: gli è stata risparmiata l’ultima umiliazione, di dover ringraziare chi aveva atteso soltanto la sua agonia per decidere; soltanto umiliante sarebbe stato il ritorno del Re sull’onda della commozione e della pietà.
    Adesso Re Umberto riposa, come da lui desiderato, nell’Abbazia di Hautecombe, assieme alla Regina Maria José ed al suo avo Re Carlo Felice di Sardegna, oltre a tanti Conti e Duchi di Casa Savoia. Noi non possiamo altro che augurarci che questo grande ed umano personaggio possa essere sepolto dove gli compete come Re d’Italia e con lui devono riposare Re Vittorio Emanuele III, Sovrano per ben 46 anni; la Regina Elena, esempio di madre e sposa ammirevoli, sempre dedita al benessere del suo popolo, e la Regina Maria José che ha condiviso l’esilio assieme a suo marito ed a suo figlio: nel Pantheon di Roma.

    Edited by Oskar - 15/11/2023, 18:02
     
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  2. Pandrea
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    Insieme a Carlo Alberto, uno dei pochi Savoia degni di essere re.
     
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